ASCENSIONE DEL SIGNORE, C

(Sostituisce la DOMENICA «DELLA PREGHIERA SACERDOTALE», VII del Tempo di Pasqua C)

Lc 24,46-53 (leggere 24,44-53); At 1,1-11; Sal 46; Eb 9,24-28; 10,19-23

 

L’Ascensione non è un episodio che si possa descrivere isolatamente, ma una delle sfaccettature di quell’unico gioiello che è il mistero pasquale. Tra Pasqua e Pentecoste è la festa dell’intervallo di tempo in cui Gesù risorto scompare agli occhi dei suoi, iniziando con loro un altro tipo di rapporto, talmente efficace che tutto sarà colmato della sua presenza. È un momento di passaggio, in cui i discepoli sono chiamati ad abbandonare la sponda familiare dei modi di presenza di prima, per la terra ancora sconosciuta in cui saranno invasi dallo Spirito del risorto. Il nuovo Elia viene tolto loro (Luca), ma l’Emmanuele rimane presente alla sua chiesa (Matteo), innalzato da Dio alla sua dignità regale (Marco).

Dopo la sua ultima apparizione, il Signore Gesù lascia apparentemente i suoi, ma la sua presenza invisibile si intensifica, raggiungendo una profondità e un’estensione che non era possibile quando egli si trovava ancora nel suo corpo terreno. Grazie allo Spirito, Gesù sarà sempre presente là dove ha insegnato agli apostoli a riconoscerlo: nella parola, nei sacramenti, nei fratelli, e soprattutto nella missione. Non si tratta dunque di contemplare il cielo, ma di essere i testimoni del risorto sulla terra degli uomini, di collaborare con lui alla crescita del suo regno.

Mistero divino e soprannaturale, l’ascensione esprime anche il senso profondo di ogni separazione umana.

«Veramente grande ed ineffabile fu il motivo di gioia, quando la natura, appartenente al genere umano, ascese a un’onorificenza superiore a quella di tutte le creature celesti (…) fino ad essere accolta nel consesso dell’eterno Padre, che l’associava alla sua gloria, dopo averla unita, nel Figlio, alla sua stessa natura. L’ascensione del Cristo è quindi la nostra elevazione; quanto più alta è la gloria del capo, tanto più può innalzarsi la speranza del corpo: lasciamo dunque prorompere la nostra gioia» (S. Leone Magno, Primo discorso sull’ascensione del Signore).

«Sulla terra il cuore non si corrompe, se lo si innalza verso Dio. Se tu avessi del grano in cantina, lo porteresti nel granaio, per evitare che marcisca. Se dunque sposteresti il tuo grano, collocandolo al piano superiore, a maggior ragione devi preoccuparti del tuo cuore, elevandolo verso il cielo. In che modo? Attraverso atti d’amore. Il corpo sale cambiando di posto; il cuore si eleva cambiando di volontà» (S. Agostino, In Ps. 58).

Per antica tradizione (sin dal IV e V secolo), la solennità dell’Ascensione era celebrata il giovedì della VI settimana di Pasqua ed è solo dal 1977 che nella nostra nazione si celebra la VII Dom. di Pasqua. Perciò anche da noi si è spostata la Solennità del 40° giorno. L’Ascensione, dal suo legittimo giovedì alla Domenica seguente solo perché seguente. Col solito “motivo pastorale” (sempre quello, come il vecchio “motivo di famiglia” che ha accompagnato le nostre assenze scolastiche) in pratica si è disatteso il simbolismo biblico del numero 40 in rapporto al numero 50 della Pentecoste e delle 7 Domeniche che portano alla medesima Pentecoste, ma alla beffa il danno, si è abolita un’altra Domenica. Ma si sa, la Domenica per la Chiesa Cattolica è un giorno di riserva per impiantarvi ogni ideologia nuova e non vale richiamare la Tradizione antica comune intangibile. La “pastorale” è il fatto preminente nella Chiesa mentre la “Teologia” è ridotta ad aspetto secondario, un giocattolo riservato agli studiosi.

«La Tradizione antica faceva tesoro della teologia in vista della pastorale. Essa aveva già risolto il problema dell’Ascensione (e altri problemi), in modo adeguato. Si trattava di un’impostazione di calendario, dove non si usano «pensate pastorali», ma si mette in opera il senso profondo della contemplazione del Mistero del Signore, della teologia in funzione della pastorale del popolo santo. Nei primordi festali, la Chiesa antica festeggiava l’Ascensione del Signore Risorto nel giorno stesso della Pentecoste dello Spirito Santo quale unico Evento trinitario, assumendo e valorizzando il simbolismo giubilare del 7 x 7 + 1 = 50, e con il giusto richiamo al Giorno della Resurrezione. Solo più tardi si ebbero le due date festali dell’Ascensione al 40° giorno, simbolismo dell’attesa, e della Pentecoste al 50°, simbolismo della pienezza.

LAscensione, ammesso (ma non concesso) che si dovesse spostare per preservare una festa del Signore (ma feste del tutto minori come il 1° novembre e l’8 dicembre sono parse intangibili!), mai avrebbe dovuto abolire una Domenica del Signore, ma poteva essere di nuovo allineata, come all’inizio era pacifico, alla Domenica di Pentecoste. Poiché la legge suprema del calendario della Chiesa, che deve obbedire alla regola apostolica della Domenica come vera Festa del Signore, e unica Festa del Signore (1 Cor 16,2; At 20,6; Ap 1,10), era comunque salvare la Domenica, il Giorno plenario della celebrazione di Cristo Risorto con lo Spirito Santo nel suo Mistero. E questo indicibile Mistero non può essere parcellizzato da nessun’altra celebrazione, la quale è sempre inferiore e deve cedere comunque alla Domenica.

In più, abolita la Domenica VII di Pasqua in quelle nazioni, non si è pensato che si provocava un danno ai fedeli, danno “pastorale” ingente perché “teologico”. Di fatto la «Preghiera sacerdotale» del Signore (Gv 17) non si proclama più al popolo di Dio, che non ascolterà più quel testo, non saprà più che il suo Signore prega per sé, per gli Apostoli, per tutto il popolo dei suoi fedeli durante la Madre di tutte le Cene, come del resto Egli seguita a operare in tutte le Cene figlie. E in gioco la contemplazione del Mistero, che esattamente dalla “teologia” scorre in modo benefico sulla “pastorale” della celebrazione.

Se il Concilio Vaticano II ha caldamente esortato ad «aprire in modo più ricco i Tesori biblici» al popolo di Dio (SC 51), qui una parte illuminante di quel Tesoro insostituibile è sottratta alla Chiesa Orante, il Soggetto principale». (T. Federici, Cristo Signore Risorto amato e celebrato. Commento al lezionario domenicale cicli A, B, C, Eparchia di Piana degli Albanesi, Palermo 2001, pp. 495-496).

 

 

 

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