Mt 14,13-21; Is 55,1-3; Sal 144; Rm 8,35.37-39
- Il Cristo, nella sua maestà, è sempre desiderabile
«Quanti si nutrono di me avranno ancora fame e quanti bevono di me avranno ancora sete» (Sir 24,20). Nel tempo presente non possiamo nutrirci di Cristo, sapienza di Dio, fino a saziare il nostro desiderio, ma restando col desiderio di saziarci; e quanto più gustiamo la sua soavità, tanto più si acuisce il desiderio. Perciò coloro che mangiano avranno ancora fame, finché non giungerà la sazietà. Quando il desiderio dei buoni sarà soddisfatto essi non avranno più né fame né sete.
Si può anche applicare alla vita futura ciò che è stato detto: «Quanti si nutrono di me avranno ancora fame e quanti bevono di me avranno ancora sete». Vi è infatti in quella eterna sazietà, come una brama, proveniente non da indigenza ma da beatitudine: in cielo coloro che non hanno più bisogno di mangiare desiderano sempre mangiare, né sono mai nauseati dalla loro sazietà. C’è infatti una sazietà senza fastidio e un desiderio senza tormento.
Il Cristo, sempre mirabile nella sua maestà, costituisce incessantemente l’oggetto del nostro desiderio, egli nel quale «gli angeli desiderano fissare lo sguardo» (1Pt 1,12). Ecco perché pur possedendolo, lo desideriamo e anche quando lo abbiamo raggiunto continuiamo a cercarlo, come sta scritto: «Cercate sempre il suo volto» (Sal 104,4). Cerchiamo continuamente colui che amiamo per esser da lui posseduti eternamente. Perciò coloro che lo trovano continuano a cercarlo, quelli che ne mangiano hanno ancora fame,e quelli che ne bevono hanno ancora sete; ma questa fame toglie ogni altra fame e questa sete,estingue ogni altra sete. Non proviene da privazione, ma da felicità consumata. Di quella fame dovuta a privazione è detto infatti: «Chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete» (Gv 6,35). Della fame invece che viene dalla beatitudine è detto: «Quanti si nutrono di me avranno ancora fame e quanti bevono di me avranno ancora sete». Per quanti credono in lui, il Cristo è …
(Dall’ opera «Il Sacramento dell’Altare» di Baldovino di Canterbury, vescovo)